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Colturano, posto in un’ubertosa pianura fra la Muzza e il Lambro, non lontano dal punto dove i due corsi d’acqua confluiscono, a nove miglia sud-est di Milano, ha origini piuttosto oscure. Colturano, trovandosi in piena Pianura Padana, porta come tanti paesi del circondario, l’origine romana, sia nel nome sia nella configurazione territoriale. I romani giunti alla conquista di Milano nel 222 prima di Cristo, e dopo la parentesi della calata di Annibale dalle Alpi, trovano questi terreni fertili per natura, vi insediano dei coloni o dei militari premiati per imprese di guerra, affinché li coltivassero.

Così nella zona troviamo Metilius, Trebius, Calucius, Calipius, Mulacius; oppure famiglie patrizie come: la Balbia, la Marzia, la Cornegia, la Valeria. che diedero i nomi a Mediglia, Tribiano, Caluzzano, Calappio, Mulazzano e quindi Balbiano, Marzano, Cornegliano, Valera (Fratta). Colturano, invece, viene da coltura o da terreno da coltivare. Tanto Balbiano, quanto Colturano, ebbero sempre il ruolo di piccoli paesi, tutti dediti all’agricoltura; si svilupparono solo nel Medioevo, per opera dei monaci cistercensi, che qui praticarono l’agricoltura per rendere questi terreni più fertili, con l’opera dell’irrigazione.

Ecco quindi la canalizzazione delle acque sorgive, piovane e quelle dei fiumi, scavando canali, fossati, rogge e roggini, per arrivare a bagnare tutte le terre a coltivo. Fecero anche opere di alta tecnica ingegneristica creando le marcite, così da giungere ad avere il doppio di tagli d’erba, in confronto agli altri prati. Un lavoro intelligente e produttivo. La tradizione, inoltre, afferma che Colturano deve aver avuto principio, nel tempo in cui cominciarono a stabilirsi nel Milanese, con San Bernardo (nato nel 1091) i Cistercensi, quindi nel XII secolo. E la cosa è più che probabile. Quei frati, una derivazione dell’ordine di San Benedetto, che da quell’epoca cominciava a decadere, andavano famosi, già come i Benedettini, per la loro specialità di ridurre a buona coltura le terre aride ed incolte. Fin dall’inizio, essi si erano stabiliti a Chiaravalle, a poca distanza da Milano e pare che proprio nel luogo ora denominato Colturano tenessero una colonia di loro frati agricoltori, che vi istituirono le citate e rinomate marcite, dalle quali si ricavano, ogni anno, perfino dieci, undici tagli di erba. Non a caso, quindi, a questo luogo fu imposto il nome Colturano, il cui significato etimologico ci rimanda al vocabolo latino «cultus», coltivazione, coltivato.

Che qui vi fosse un convento di tali frati, si può tuttora constatare dalla casa di uno dei più grossi fondi del paese, situata in posizione centrale, molto rialzata.

A Colturano infatti esiste ancora il Convento-Monastero, consistente in un fabbricato massiccio, con celle monacali, refettorio e sala capitolare, tutto in perfetto stile monastico, con belle pitture (abbastanza sgualcite) e tondini ornamentali nella fascia superiore del fabbricato. Il tutto ora è di proprietà privata (nei secoli è passato da un proprietario all’altro) e una parte del Pio Albergo Trivulzio.

In essa sono evidentissimi i resti di un grande e bellissimo convento, con celle monacali, refettorio, sala del Capitolo: il tutto in stile monastico. Come poi, da proprietà claustrale, queste terre siano passate a proprietà privata e come si sia affermato il libero Comune, nulla di preciso si conosce. Nel luglio del 1526 le truppe di Francesco I di Francia e quelle di Carlo V di Spagna erano in lotta per la liberazione e la conquista del Ducato di Milano, e proprio su questi territori ci furono tremende battaglie, terminate alla fine con dominio della Spagna: le già povere popolazioni oltre le devastazioni, si trovarono più misere di prima. Anche Colturano come Balbiano fu concesso in feudo ad una famiglia nobile milanese: la famiglia Scotti. Gli eventi di tale famiglia, collegata a Colturano, sono stati ricostruiti da Concetta Tordi, dalla quale riportiamo le note che seguono. Con atto del 3 dicembre 1663 Raimondo Scotti otteneva l’investitura del feudo di Colturano per sé e per suo fratello Vincenzo, con trasmissibilità ai discendenti maschi primogeniti. Il feudo di Colturano aveva allora 35 focolari (ossia 35 famiglie) e nessun reddito. Vincenzo Scotti con diploma di Re Carlo II di Spagna in data 25 dicembre 1671, ratificato il 25 giugno 1672, otteneva il titolo comitale, cioè il titolo di conte, appoggiato al suddetto feudo, sempre con trasmissibilità in ordine primogeniale maschile.    

Il conte Giovanni Battista, uno dei 60 Decurioni (membri del consiglio di amministrazione comunale) di Milano (1690-1729), figlio del predetto Vincenzo, moriva senza lasciare discendenza e con lui si estingueva la famiglia Scotti di Milano (+ 1729), per cui il titolo di conte di Colturano ed il cognome venivano trasferiti nella famiglia Gallarati che divenne Gallarati-Scotti.

La famiglia Scotti era una famiglia milanese derivata da una diramazione della casata Scotti-Douglas di Piacenza, discendente da un Bernardino che era stato Podestà di Milano. Personaggi noti di questa illustre casata furono: Antonio, nominato nel 1407 tesoriere di Ettore Visconti, Signore di Monza; Girolamo, giudice delle strade, membro dei LX Decurioni di Milano e del Consiglio Militare; Bernardino, che fu un celebre avvocato concistorale (il concistoro è l’adunanza dei Cardinali) legato apostolico e datario, presiedeva cioè alla dateria, l’ufficio nella corte papale che si occupava della collaborazione, del conferimento dei benefici, di beni ecclesiastici.
Lo stemma di questo casato era così descritto: «Arma: Palato d’oro di sei pezzi, il secondo palo d’oro caricato di un’aquila di nero, coronata di rosso”.

La famiglia Gallarati iniziò ad assumere il cognome Scotti in persona di Giambattista (1720-1777), figlio di Carlo Giuseppe e di Anna dei marchesi Ghislieri, nominato erede universale del patrimonio dal conte Giambattista Scotti che, aprendogli la successione dei feudi di Vedano (Mi) e di Colturano lo obbligava ad assumere il nome e lo stemma degli Scotti, nonché il titolo di conte trasmissibile per maschi primogeniti.

Giuseppe figlio di Giambattista, per la morte dello zio Giantommaso IV, successo a quest’ultimo nei feudi e nel titolo marchionale cioè di marchese. Suo fratello Gianfilippo (nato nel 1747), iscritto al collegio dei Giureconsulti nel 1792, fu nominato Arcivescovo di Sidone (città fenicia), fu nunzio apostolico a Firenze e Venezia e maestro di camera di Papa Pio VII, dal quale fu nominato cardinale ed insieme subì l’esilio in Francia per l’opposizione all’imperatore Napoleone I. Tra gli ultimi rappresentanti di questa nobile casata merita un particolare cenno biografico Tommaso Fulco (1878-1966), diplomatico e letterato, discepolo di Fogazzaro legato in amicizia con i più grandi esponenti della cultura cattolica europea ed italiana. Prese parte alla prima guerra mondiale ottenendo una medaglia d’argento, fu per lungo tempo ufficiale d’ordinanza del generale Cadorna e ambasciatore in Spagna (1945-1947), e poi a Londra (1947-1952). Fu presidente della Fiera di Milano e del Banco Ambrosiano. E’ l’apprezzassimo autore de “La vita di Antonio Fogazzaro“; di una ”Vita di Dante” (1921), di due romanzi e di opere teatrali tra cui “Così sia” portato sulle scene da Eleonora Duse. Ma torniamo a Colturano. L’8 giugno dell’anno 1859, data della battaglia di Melegnano, tra le strade campestri di Colturano, fu costretta ad indugiarsi, ostacolata dal fango, nella sua marcia, l’artiglieria francese comandata dal generale Mac-Mahon, che doveva, a sinistra di Melegnano, venendo da Milano, portarsi alle spalle degli austriaci, sullo stradale diretto a Lodi, allo scopo di impedire loro la ritirata. Per tale indugio gli austriaci, sebbene sconfitti, poterono mettersi in salvo, a Lodi a Al Mac-Mahon non restò che lanciare contro i fuggiaschi alcuni colpi di cannone.

Un ufficiale superiore austriaco fu gravemente ferito da uno dei colpi e fu trasportato al noto «Caffé della Vedova” in Lodi, dove morì. Pare si tratti di B.E. Boer de Nagy Berivoi, maggior generale, d’anni quarantotto, capolista nella lapide al Cimitero della Vittoria, in Lodi, e dedicata «ai Prodi già appartenuti all’Imperiale Regio Esercito Austro-Ungarico morti a Lodi in seguito alle ferite riportate nel combattimento di Melegnano». Il resto appartiene alla storia moderna e agli eventi contemporanei.

Non è mai stato pubblicato molto sul passato della comunità locale. Per questo, non sono molto note le vicende storiche del passato. Un grande merito l’ha comunque avuto, in questi anni, il foglio informatore parrocchiale “La quarta Campana” che a più riprese ha pubblicato stralci di episodi legati al passato. Colturano quindi è sorto come colonia agricola, ed attraverso i secoli ha perpetuato questa sua caratteristica allargando i propri confini iniziali ed arricchendo la propria popolazione; ma come tutti i centri agricoli, nel decennio compreso tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta ha visto impoverirsi il numero dei suoi abitanti, attirati dai vicini, grossi centri industriali. Infatti nel censimento del 1961, Colturano con la frazione di Balbiano e la cascina Colombara, contava 969 abitanti. Oggi Colturano conta una popolazione di circa 2000 abitanti e 780 famiglie.    

In archivio parrocchiale esiste un biglietto curioso, sul quale si legge: «Nell’anno del Signore 1954, il giorno 20 del mese di luglio, alla presenza di me, parroco di Colturano, sacerdote Carlo Strada, del signor Rho Francesco, fabbricere della chiesa, ad opera dei giovani Angelo Caserini e Luigi Radaelli, fu levata la pietra sepolcrale antistante la balaustra dell’altare Maggiore che porta la seguente iscrizione latina: ‘Hic giacent ossa et cineres defunctorum ante praescriptionem sepeliendi extra pagi muros. Requiem hoc pavimentum renovatum ac in melius reductum fuuit ex impensis unÌversae comunitatis Colturani.”    

Anno salutis MCMXXIII” (qui,giacciono le ossa e ceneri, dei defunti prima della disposizione di seppellire fuori dalle mura del paese. Requiem. Questo pavimento fu rinnovato e migliorato coi contributi di tutta la comunità di Colturano. Anno 1923). Perforata la volta di cemento e mattoni, fu trovata una camera rettangolare dici circa 2,8 metri per 1,5 metri e di 1,5 metri circa di altezza, chiusa all’inizio da un muro grezzo di mattoni.    

Nella parte, superiore, antistante la pietra sepolcrale, esiste una botola quadrata. Su ,tutta la superficie della Camera si rinvenne un grande mucchio di ceneri e di ossa, ma specialmente in corrispondenza della botola soprastante. Non fu trovata traccia di galleria o sottopassaggio che, come vuole la tradizione popolare, attraversava la chiesa nella sua lunghezza e andava all’ex Convento degli Umiliati poi proprietà della casata Gallarati-Scotti, ed ora, in parte del signor Ernesto Rossi e in parte della dott.sa Maddinelli.        

Tutto fu lasciato come trovato e chiuso ad opera degli stessi giovani. In fede di chi ci sottoscriviamo. Sacerdote Carlo Strada». Dice don Mario Zacchi: «E’ senz’altro un biglietto curioso, documento di una verifica compiuta da Don Carlo Strada parroco di Colturano, accompagnato da alcuni giovani, per dimostrare l’inconsistenza di una diceria e tradizione popolare secondo la quale sarebbe esistito un passaggio sotterraneo collegante la chiesa parrocchiale al convento. Un po’ tutti i paesi hanno tradizioni circa passaggi segreti e sotterranei. Qualcuno da noi sostiene l’esistenza di un cunicolo che collega il convento al cascinale ora scomparso dei Campofregoso, verso Melegnano, in aperta campagna.        

Anticamente le chiese ed i conventi erano,in particolari circostanze, luoghi di sicuro rifugio, nei quali nessuno osava entrare per fare violenza o arrestare qualcuno. Che esistesse una botola nel pavimento della chiesa poteva facilmente far pensare che dalla chiesa stessa si potesse poi raggiungere l’aperta campagna, magari di notte, e poi svanire nel nulla, imprendibili anche per la più attenta sorveglianza.In realtà la botola attualmente esistente nel pavimento della chiesa di Colturano è servita per collocarvi i resti dei defunti rinvenuti nel vecchio cimitero fra la chiesa e la strada Cerca, in direzione di Melegnano, e i resti che fino al 1934 erano collocati nell’attuale cappella della Madonna, sulla piazza della chiesa, adibita anticamente ad ossario.    

Il vecchio monastero resta comunque il monumento del passato più rilevante. Abbandonato dai Cistercensi, divenne proprietà dei Visconti, che utilizzavano questa zona come riserva di caccia. Il monastero passò poi ai Trivulzio, che ne cedettero in seguito una parte ai Gallarati-Scotti. Un fianco della costruzione, rimasto alla famiglia Trivulzio, proprietà del Pio Albergo Milanese, è ora di proprietà privata, mentre la parte dei Gallarati è stata ceduta in epoca contemporanea.        
Quel poco che è rimasto dell’antico monastero, per l’usura del tempo e la mancanza di interventi, si trova in condizioni precarie: il bel cortile dotato di un ampio porticato a ogiva; il colonnato superiore con stemmi dipinti; le cornici in cotto di due finestre; il portale d’ingresso e, di fronte a questo, un affresco, oramai quasi completamente sparito. Per non parlare poi dell’antica legnaia, con l’originale travatura in legno, che è quasi crollata.